Ringraziamenti (Dal libro: L’uomo che parla ai cani)
Questo mio primo libro significa molto per me, ed è importante che ringrazi tutti coloro che in qualche modo hanno influito sulla mia vita, tutti coloro che mi hanno aiutato a realizzare questo mio sogno. Alcune di queste persone non le ho mai conosciute, ma tutte hanno contribuito a plasmare il mio modo di pensare e di affrontare il mio lavoro.
La prima è Jada Pinkett Smith, che è stata più di una semplice cliente: è stata per me un mentore, una guida e un modello. Grazie, Jada, per il tuo carattere meraviglioso e per avermi mostrato il significato di un'amicizia senza riserve.
Desidero poi ringraziare Jay Real per avermi preso sotto la sua ala protettrice e avermi insegnato le regole, i confini e i limiti del mondo degli affari. Jay, sei un uomo d'onore. Hai capito istintivamente quando prendermi per mano e guidarmi, ma anche quando era il momento per me di lasciare il nido e volare via. Ti sarò sempre grato per questo.
Ci sono anche due donne che desidero ringraziare, le titolari di un salone di bellezza per cani a San Diego che mi assunsero quando arrivai per la prima volta negli Stati Uniti. Perdonatemi se non ricordo i vostri nomi: all'epoca non parlavo inglese e i nomi americani erano molto difficili per me. Ma se state leggendo questo libro, sappiate che non dimenticherò mai ciò che avete fatto per me. Penso a voi come ai miei primi (ma non ultimi! ) angeli custodi americani.
Gli esperti e gli autori di manuali di auto-aiuto, spesso godono di scarsa considerazione nel mondo della cultura, ma io devo il mio successo proprio ad alcuni di loro. Oprah Winfrey
ha avuto un grosso impatto su di me molto prima di avere l'onore di conoscerla di persona e di lavorare con i suoi cani. Il suo programma televisivo, How to say no (Come dire no), mi ha cambiato la vita all'inizio della carriera, perché all'epoca dicevo di no alla mia famiglia, ma sì a tutti gli altri. Grazie, Oprah, per la tua saggezza e il tuo acume. Per me sarai sempre l'incarnazione dell'energia “calmo-assertiva” per il modo in cui affronti la vita e il tuo lavoro. Tu sei davvero un fantastico 'capobranco' per la razza umana!
ha avuto un grosso impatto su di me molto prima di avere l'onore di conoscerla di persona e di lavorare con i suoi cani. Il suo programma televisivo, How to say no (Come dire no), mi ha cambiato la vita all'inizio della carriera, perché all'epoca dicevo di no alla mia famiglia, ma sì a tutti gli altri. Grazie, Oprah, per la tua saggezza e il tuo acume. Per me sarai sempre l'incarnazione dell'energia “calmo-assertiva” per il modo in cui affronti la vita e il tuo lavoro. Tu sei davvero un fantastico 'capobranco' per la razza umana!
Ci sono altri che desidero menzionare e ringraziare: Anthony Robbins mi ha mostrato come prefiggermi un obiettivo, concentrarmi sui passi necessari a raggiungerlo e poi raggiungerlo davvero. Il dottor Wayne Dyer mi ha insegnato il potere della volontà. Deepak Chopra mi ha aiutato a mettere chiarezza nelle mie convinzioni sull'equilibrio tra anima e corpo e sul nostro legame col mondo della natura e dello spirito. Il dottor Phil McGraw mi ha insegnato come dare con delicatezza notizie che gli altri potrebbero non voler sentire e mi ha anche aiutato ad accettare di buon grado che i miei consigli non valgano necessariamente per tutti. Il libro dello psicologo John Gray invece, Gli uomini vengono da Marte, le donne da Venere, mi ha aiutato a salvare il mio matrimonio.
C'è stato un momento nella mia vita in cui avrei tanto voluto sapere se ero pazzo, in cui mi sono chiesto se fossi l'unico sulla faccia della Terra a credere che la psicologia canina, e non l'addestramento, fosse la chiave per aiutare i cani con problemi. Sono stati i libri Dog Psychology: The Basics of Dog Training (La psicologia canina: rudimenti dell'addestramento del cane) del compianto dottor Leon E Whitney e La mente del cane del dottor Bruce Fogle a salvarmi dalla follia e ad aiutarmi a capire che ero sulla strada giusta.
Quando il Los Angeles Times pubblicò un servizio su di me nel 2002, una schiera di produttori hollywoodiani calò sul mio Dog Psychology Center e ciascuno mi promise mari e monti se gli avessi ceduto i diritti sulla mia vita. Sheila Emery e Kay Sumner furono le uniche che non volevano portarmi via niente e che non mi fecero promesse avventate. Desidero ringraziarle per avermi presentato all'MPH Entertainment Group, ossia a Jim Milio, Melissa Jo Peltier e Mark Hufnail. La squadra composta dall'MPH e da Emery e Sumner ha venduto il mio programma, Dog Whisperer with Cesar Millan, al National Geographic Channel. A differenza degli altri produttori che mi avevano contattato, i soci dell'MPH non volevano cambiarmi: non mi hanno mai chiesto neppure una volta di fingere di essere qualcosa che non sono. Loro volevano presentarmi esattamente per quello che sono, senza fronzoli, senza tutto l'armamentario dello spettacolo, solo la mia essenza. Kay, Sheila e i tre soci dell'MPH (io li chiamo il “branco della televisione”) mi hanno aiutato a restare con i piedi per terra in un mondo che può facilmente far perdere la testa ai nuovi arrivati.
Voglio ringraziare in particolare i miei due bambini speciali, Andre e Calvin. Il loro papà è molto devoto alla sua missione, una missione che spesso ha assorbito del tempo che avrebbe potuto spendere con loro. Crescendo voglio che sappiano che in ogni secondo trascorso lontano da loro sono comunque in cima ai miei pensieri. Miei straordinari ragazzi, voi siete la ragione per andare avanti: qualunque traccia lascerò nel mondo la lascerò per voi. Voglio che cresciate in una famiglia in cui l'onore sia sempre al primo mosto. Andre e Calvin, spero che ricorderete sempre le vostre radici e le custodirete con affetto.
Ma la più importante, la mia forza, la mia colonna portante, è mia moglie, Ilusion Wilson Millan. Credo che non ci sia nessun uomo più fortunato di colui che ha una donna che lo appoggia al cento percento. Sono tanto fortunato da averla. Ilusion era con me prima che diventassi “qualcuno” o possedessi qualcosa. Mi ha sempre mostrato l'importanza dell'amore incondizionato e allo stesso tempo mi ha davvero “rieducato”. Sono nato con i piedi ben piantati a terra, ma prima di sposarla stavo iniziando a perdermi: ero diventato egoista ed ero piuttosto confuso sulle priorità della mia vita. Ilusion mi ha riportato nei ranghi, mi ha dato delle regole, dei confini e dei limiti. Ha sempre combattuto per ciò che credeva fosse meglio per il nostro rapporto e per la nostra famiglia e non ha mai ceduto: lei ama gli esseri umani quanto io amo i cani. All'inizio della mia carriera tendevo a trascurare il lato “umano” del rapporto con il cane, ma Ilusion ha capito immediatamente che erano proprio gli esseri umani a dover “entrare in sintonia” in modo che i cani fossero felici. Lei è anche la persona più altruista e più incline al perdono che abbia mai conosciuto. Sa cos'è il vero perdono, e non solo le parole, ma gli atti: per Ilusion ciò ha significato perdonare i responsabili di alcuni eventi molto traumatici della sua vita. Questo è già di per sé una fonte di ispirazione. Ilusion, ogni giorno mi sveglio orgoglioso e onorato di averti come moglie.
Infine, ci sono i cani. Se fossi un albero, tutte le persone meravigliose della mia vita sarebbero coloro che hanno influito sulla mia crescita, ma i cani sarebbero comunque le mie radici. Loro mi hanno tenuto ancorato a questa vita. In ogni cane che vedo vive lo spirito di mio nonno, l'uomo che più di tutti mi ha aiutato a capire il significato dell'esistenza, che per primo mi ha iniziato al miracolo degli animali e alle meraviglie di Madre Natura. I cani non leggono i libri, perciò questo mio ringraziamento non significa niente per loro; ma io spero, quando sono loro vicino, che percepiscano sempre l'energia che deriva dalla mia eterna gratitudine per tutto ciò che mi hanno dato.
Crescere con i cani - Una sbirciatina dall'altra parte del confine
(Nella foto Cesar Millan con il papà) |
Ci svegliavamo prima dell'alba, in quelle mattine d'estate alla fattoria. Non c'era elettricità, perciò quando calava la sera c'era ben poco da fare per noi bambini alla luce delle candele. Mentre gli adulti parlavano a bassa voce fino a tarda notte, io e mia sorella maggiore cercavamo di scivolare nel sonno nel calore soffocante. Non ci servivano sveglie: a svegliarci bastava quel primo sottile raggio di polvere dorata che filtrava dalla finestra aperta e senza persiane. I primi suoni a raggiungere le mie orecchie erano le galline, col loro chiocciare insistente mentre bisticciavano per il grano che mio nonno stava già spargendo per l'aia. Se restavo a poltrire ancora un po' nel letto, riuscivo a sentire l'odore del caffè che bolliva sul fornello e lo sciacquio dell'acqua nei secchi di ceramica che mia nonna riportava dal pozzo. Prima di entrare in casa, ne spargeva un po' sul sentiero di terra di fronte alla porta di casa, così le mucche non ci avrebbero soffocato sollevando la polvere mentre passavano nella loro quotidiana parata verso il fiume.
La maggior parte delle volte, però, l'ultima cosa che volevo era restare a letto. Anzi, non vedevo l'ora di alzarmi e correre fuori. Volevo solo stare tra gli animali. Sin da quando riesco a ricordare, ho sempre amato trascorrere ore a camminare con loro o semplicemente a guardarli in silenzio, tentando di capire come funzionava la loro testa. Che fosse un gatto, un pollo, un toro o una capra, volevo sapere come appariva il mondo attraverso gli occhi di ogni animale. Volevo capirlo nella sua interezza. Non ho mai pensato che fossero come noi, ma non ricordo neppure di aver mai pensato che fossero “inferiori”. Ero costantemente affascinato dalle nostre differenze, e lo sono ancora. Mia madre mi ripete ancora oggi che da quando sono stato in grado di allungare la mano e toccare un animale, non ho mai smesso di voler scoprire di più su di loro.
Gli animali che mi attraevano di più sono sempre stati i cani. Nella nostra famiglia avere cani intorno era come avere acqua da bere. I cani sono stati una presenza costante nella mia infanzia e non potrò mai sottolineare abbastanza la loro importanza nel mio sviluppo, nel diventare ciò che sono adesso. Non potrei né vorrei mai immaginare un mondo senza di loro. Rispetto la loro dignità in quanto animali orgogliosi e meravigliosi. Non smetto mai di stupirmi della loro lealtà, costanza, resistenza e forza. Continuo a crescere spiritualmente studiando il loro legame inscindibile con Madre Natura, nonostante le migliaia di anni in cui hanno vissuto fianco a fianco con l'uomo. Dire che amo i cani non descrive neppure lontanamente i miei sentimenti profondi e la mia affinità con loro.
Sono stato molto fortunato ad aver avuto un'infanzia meravigliosa, trascorsa in mezzo ai cani e a molti altri animali. Poiché sono cresciuto in Messico, in una cultura molto diversa da quella degli Stati Uniti, ho il vantaggio di vedere questo paese e le sue consuetudini dalla prospettiva del nuovo arrivato. Anche se non sono un veterinario, un medico né un biologo, nel corso degli anni ho rieducato con successo migliaia di cani problematici e sono convinto che molti cani negli Stati Uniti non sono così felici come potrebbero essere. Vorrei perciò offrirvi un modo più equilibrato e più sano di amare il vostro amico, per instaurare quel legame profondo con un animale che avete sempre sognato. Spero che dopo aver condiviso con voi le mie esperienze e la mia storia personale potrete cominciare a guardare da un punto di vista differente il rapporto tra uomo e cane.
La fattoria
Sono nato a Culiacan, una delle città più antiche del Messico, a circa mille chilometri da Città del Messico, e lì ho trascorso i primi anni di vita. I ricordi più vividi della mia infanzia, però, sono quelli delle vacanze e dei fine settimana trascorsi alla fattoria di mio nonno a Ixpalino, a circa un'ora di distanza. Situate nello Stato di Sinaloa, le fattorie come quella in cui viveva mio nonno funzionavano con un sistema simile a quello feudale. La fattoria, o il ranch, era dei patrones, le famiglie più ricche del Messico. Mio nonno era uno dei molti braccianti del ranch, i campesi-nos, che affittavano gli ejidos, ossia appezzamenti di terra, e si guadagnavano da vivere lavorandoli. Le famiglie di braccianti formavano così una vera e propria comunità. La situazione è più o meno la stessa di quella dei mezzadri nel Sud degli Stati Uniti. Il compito principale di mio nonno era di prendersi cura delle mucche (ce n'erano a decine) e di accompagnarle sane e salve dal pascolo al ruscello e viceversa ogni giorno.
Allevavamo anche galline e altri animali, soprattutto per mangiarne la carne. La casa era molto piccola, lunga e stretta, e fatta principalmente di mattoni e argilla. Aveva solo quattro stanze, che diventarono molto affollate quando nacquero le mie altre sorelle e mio fratello e ogni volta che i nostri numerosi cugini venivano a farci visita. Avevo già quattordici o quindici anni quando arrivò per la prima volta l'acqua corrente, eppure non ricordo di essermi mai sentito “povero”. In quella parte del Messico, la classe operaia era la maggioranza, e quella fattoria per me era il paradiso. Avrei preferito di gran lunga andare lì che in qualsiasi parco dei divertimenti. La fattoria era il posto dove potevo essere davvero me stesso, dove mi sentivo davvero a contatto con la natura.
E sempre lì, sullo sfondo, c'erano i cani, che di solito vivevano in branchi di cinque, sette animali senza una rigida gerarchia. Non erano selvatici, ma non erano neppure “cani da appartamento”. Vivevano fuori in cortile e andavano e venivano a piacimento. Erano quasi tutti un incrocio di diverse razze e molti ricordavano un misto di pastore tedesco di piccola taglia, labrador e basenji. I cani si sentivano parte della nostra famiglia, ma non erano affatto gli animali da compagnia a cui siamo abituati nelle moderne società occidentali. Erano tutti cani che lavoravano per vivere. Aiutavano a tenere in riga gli altri animali, correndo accanto a mio padre o dietro di lui quando riuniva le mucche e badando che nessuna si allontanasse dal sentiero. I cani avevano anche altri compiti, come quello di proteggere la nostra terra e la nostra proprietà. Se qualcuno dei braccianti lasciava il cappello nel campo, potete stare sicuri che uno dei cani sarebbe rimasto a fargli la guardia fino al ritorno del suo proprietario. Si prendevano anche cura delle donne della nostra famiglia. Se mia nonna attraversava i campi all'ora di pranzo per portare da mangiare ai braccianti, un cane o due andavano sempre con lei nel caso comparisse un maiale aggressivo che volesse portarle via il cibo. I cani ci proteggevano sempre; noi lo davamo per scontato. E non abbiamo mai “insegnato” loro a fare queste cose, non nel senso di “addestramento” come si intende oggi. Non urlavamo loro degli ordini come fanno gli addestratori, né li ricompensavano coi biscottini. E non facevamo mai loro del male per farli obbedire. Semplicemente facevano il lavoro che dovevano fare. Qualcosa nel modo in cui ci aiutavano sembrava già insito nella loro natura, o forse questo comportamento era stato tramandato di generazione in generazione. In cambio del loro aiuto, noi lanciavamo loro un burrito o due di tanto in tanto. Altrimenti, si procuravano da soli il cibo scavando tra i rifiuti o cacciando piccoli animali. Interagivano con allegria con noi, ma avevano anche uno stile di vita ben distinto dal nostro, la loro “cultura”, se volete.
Questi “cani da lavoro” della nostra fattoria furono i miei veri maestri nell'arte e nella scienza della psicologia canina.
Ho sempre amato osservare i cani. Immagino che il classico bambino americano corra e giochi col suo amico a quattro zampe, tirandogli il frisbee, giocando al tiro alla fune o lottando con lui sull'erba. A me, invece, sin da piccolo, i cani hanno dato gioia semplicemente osservandoli. Quando non erano con noi o interagivano con gli altri animali della fattoria, li guardavo giocare tra loro. Ho imparato molto presto a decifrare il loro linguaggio del corpo, come la posizione di “inchino giocoso”, quando un cane vuole invitarne un altro a giocare. Ricordo che si afferravano per le orecchie e rotolavano a terra. A volte correvano e andavano in giro a esplorare insieme; a volte si mettevano in gruppo e scavavano nella tana di un citello. Quando la loro giornata di lavoro era finita, alcuni correvano a gettarsi nel ruscello per rinfrescarsi. I meno coraggiosi si sdraiavano tranquilli sulla riva e osservavano gli altri. I loro ritmi e le loro abitudini quotidiane formavano una cultura di per sé. Le madri educavano i cuccioli in modo che imparassero le regole del branco già da piccolissimi. I branchi e i gruppi familiari operavano decisamente come una società organizzata, con regole e limiti chiari.
Più ore trascorrevo a osservarli, più domande mi ponevo. Come coordinavano le loro attività? Come comunicavano fra loro? Notai quasi subito che un semplice sguardo poteva cambiare la dinamica dell’intero branco in un istante. Qual era il messaggio? Cosa si “dicevano”, e come? Ben presto scoprii che anch'io potevo avere effetto su di loro. Se per esempio volevo che uno mi seguisse nei campi, sembrava che bastasse pensarlo, pensare in quale direzione volevo andare e il cane mi avrebbe letto nel pensiero e mi avrebbe seguito. Come riusciva a farlo?
Ero affascinato anche dal numero infinito di cose che i cani riuscivano a imparare sul complesso mondo intorno a loro semplicemente andando per tentativi. Parte di quello che sapevano della natura era forse innato? mi chiedevo. L'enorme conoscenza che dimostravano riguardo all'ambiente e a come sopravvivervi sembrava derivare da una combinazione di istinto e apprendimento. Ad esempio ho un vivido ricordo di una coppia di cucciolotti che si avvicinavano a uno scorpione, probabilmente per la prima volta in vita loro. Ovviamente erano affascinati da quella strana creatura e li vidi accostarsi piano piano, incerti, col naso in avanti. Non appena gli si fecero vicini, lo scorpione iniziò ad avanzare verso di loro e i cuccioli fecero un balzo all'indietro. Poi ricominciarono ad annusare lo scorpione tutto intorno, indietreggiarono e avanzarono di nuovo... ma mai tanto da essere punti. Come sapevano quanto vicino potevano spingersi? Lo scorpione stava forse mandando loro dei «segnali» su quali erano i loro limiti? Come percepivano quei due cuccioli il veleno dello scorpione? Sono stato testimone della stessa scena con uno dei nostri cani e un serpente a sonagli. Sentiva forse l'odore del pericolo provenire da quel serpente? Sapevo come avevo imparato io che un animale era pericoloso. Mio padre mi aveva detto: «Se vai vicino a quello scorpione ti prendo a sculacciate» oppure «Se tocchi quel serpente, morirai avvelenato». Ma non vedrete mai un papà cane o una mamma cane dire al cucciolo: «Le cose stanno così». Questi cuccioli avevano imparato dall'esperienza e guardando gli altri cani, ma sembravano anche avere una specie di sesto senso, un sesto senso che già da ragazzo mi sembrava mancasse alla maggior parte degli esseri umani che conoscevo. Questi cani sembravano in completa sintonia con Madre Natura ed è questo che mi affascinava e mi spingeva a tornare a osservarli, giorno dopo giorno.
Biografia Melissa Jo Peltier
Melissa Jo Peltier desidera ringraziare: Laureen Ong, John Ford, Colette Beaudry, Mike Beller e Michael Cascio del National Geographic Channel nonché Russel Howard e Chris Albert del loro formidabile ufficio marketing; la nostra troupe e lo staff di Dog Whisperer with Cesar Miliari, per la loro costante bravura; Scott Miller del Trident Media Group, per la sua fiducia e la sua pazienza, e l'incomparabile Ronald Kessler, per avermi presentato alla Trident; Kim Meisner e Julia Pastore della Harmony Books, per la loro professionalità; Heather Mitchello, per le sue ricerche; Kay Sumner e Sheila Emery, per aver portato Cesar nelle nostre vite; Ilusion Millan, per la sua fiducia e la sua amicizia; Jim Milio e Mark Hufnail, per dieci stupefacenti anni e per quelli a venire; Euclid J. Peltier (papà) per l'ispirazione; l'adorabile Caitlin Gray, per essere stata paziente con me durante un'estate dedicata alla scrittura; e John Gray, il mio grande amore: tu hai cambiato tutto.
E, naturalmente, Cesar. Grazie, Cesar, per avermi concesso l'onore di diventare parte dello scopo della tua vita.
Introduzione di Jada Pinkett Smith
Sappiate che, grazie alla psicologia canina di Cesar Millan, imparerete tanto su voi stessi quanto sul vostro cane. Perché, vedete, siamo noi esseri umani ad aver perso la concezione dell'ordine naturale in cui operano i nostri cani. La nostra mancanza di conoscenza della loro natura e dei loro bisogni li priva degli istinti che usano per sopravvivere. In questo modo creiamo un cane squilibrato e infelice che è più un grattacapo che una gioia. Cesar ci porta a comprendere il modo naturale di vivere dei nostri animali, così che possiamo renderli più equilibrati e felici. E una volta diventati più equilibrati e felici, ci consentiranno di sviluppare un rapporto più salutare con loro.
Grazie alla sua pazienza e alla sua saggezza, Cesar è stato una vera benedizione per la mia famiglia, per i miei cani e per me. Perciò, novelli studenti, siate disposti a imparare cose nuove e avrete anche voi la mia stessa fortuna.
INTRODUZIONE DI MARTIN DEELEY
Presidente dell'Associazione Internazionale dei Professionisti Cinofili
Oggi, nonostante abbiamo più libri, più consigli, più strumenti per l'addestramento e decisamente molti più “premi” da offrire ai nostri animali, abbiamo anche cani molto più maleducati di prima. Possediamo i mezzi per educarli meglio, ma manchiamo della necessaria comprensione della loro natura. Anche se per la maggior parte siamo dei buoni padroni, amanti dei nostri cani e con tutte le migliori intenzioni nei loro confronti, questa lacuna può creare molti problemi. Detto in parole povere, i cani non sono degli esseri umani in miniatura: non pensano come loro, non agiscono come loro né vedono il mondo allo stesso modo. I cani sono cani e dobbiamo rispettarli in quanto tali. Rendiamo loro un pessimo servizio trattandoli come esseri umani e creando così molti dei pessimi comportamenti che vediamo in giro oggi.
Dal primo momento che ho visto Cesar Millan al lavoro con i cani nel suo programma Dog Whisperer, ho capito che lui comprendeva questo concetto. Cesar è una persona unica che non ha paura di essere politicamente scorretta, che parla di autorità e non ha paura di dare una correzione quando è necessario. Non finirò mai di stupirmi di come Cesar interagisce sia con i cani che con i loro padroni: lui è in grado di spiegare il problema in un modo che qualunque padrone sarebbe in grado di capire. La sua personalità, la sua cordialità e il suo senso dell'umorismo sono irresistibili; grazie al suo fascino, persino i proprietari più testardi lo ascoltano e desiderano cambiare, perché Cesar offre soluzioni: basta un minimo di comunicazione verbale, il cane obbedisce e cambia il suo atteggiamento e il suo comportamento. L'approccio calmo e sicuro di Cesar produce una risposta positiva: il nostro è davvero un uomo che sa parlare il linguaggio dei cani..
In questo libro Cesar ci ricorda che la fase più importante dell'addestramento di un cane è costruire un sano rapporto con lui, un rapporto in cui i confini siano delimitati con chiarezza. Per esperienza personale so che questo è di vitale importanza. Il mio primo cane, Kim, non ha mai mostrato aggressività, né si è mai comportato male in pubblico o con gli ospiti. Oggi la gente direbbe: «Ecco un cane ben addestrato». Ma non era addestramento; era perché avevamo un rapporto basato sui tre elementi chiave che Cesar spiega in dettaglio in questo libro: esercizio, disciplina e affetto.
Cesar ci mostra come costruire questo rapporto e ci aiuta a comprendere meglio i nostri cani. Ci spiega anche come i cani possono cambiare il loro comportamento e il loro atteggiamento con il giusto approccio. Si tratta di informazioni essenziali per tutti coloro che vogliono vivere più serenamente insieme ai loro preziosi animali da compagnia.
Capibranco e gregari
C'era qualcos'altro che notai già da piccolo: una serie di comportamenti che sembrava distinguere i cani della fattoria di mio nonno da quelli delle altre famiglie della zona. Alcuni degli altri braccianti sembravano avere cani con una struttura di branco molto rigida, dove un cane era il capobranco e gli altri erano i gregari. A quelle famiglie piaceva osservare i loro cani mentre si azzuffavano per il predominio, ossia quando un cane sconfiggeva un altro. Per loro era uno spettacolo divertente. Io capivo che tali manifestazioni di supremazia erano un comportamento naturale per i cani: l'avevo visto spesso anche nei branchi di cani randagi che si aggiravano per i campi vicino a casa nostra. Ma per mio nonno quel comportamento era inaccettabile. I cani della nostra fattoria non sembravano avere un capobranco, almeno apparentemente. Mi rendo conto ora che mio nonno non lasciò mai che nessun cane gli portasse via quel ruolo, e neppure a noi altri esseri umani, se è per questo. Lui sapeva istintivamente che affinché i cani potessero vivere in armonia con noi e lavorare con noi alla fattoria senza mai mostrarsi aggressivi o dominanti nei nostri confronti, dovevano comprendere che noi eravamo i loro capibranco. E questo si vedeva dalle posture che assumevano quando eravamo nei paraggi. Il loro linguaggio del corpo comunicava la classica «sottomissione calma» o «sottomissione attiva», qualità dell'energia che descriverò più dettagliatamente in seguito. Le teste dei cani erano sempre basse e tenevano sempre una certa posizione rispetto a noi quando ci spostavamo, o trottando dietro di noi o accanto, e mai correndo davanti per primi.
Ora, mio nonno non ha mai avuto manuali di addestramento o libri di auto aiuto, né tecniche scientifiche su cui basarsi, eppure riusciva sempre a suscitare nei suoi cani quella reazione di perfetta calma, sottomissione e collaborazione. Non ho mai visto mio nonno usare alcuna forma di punizione violenta, né corrompere i suoi cani con dei “premi”. Ciò che faceva era proiettare il tipo di energia coerente e calmo-assertiva che denota un capobranco in ogni specie. Mio nonno era una delle persone più controllate e più sicure di sé che abbia mai conosciuto e senza dubbio la persona più in sintonia con la natura. E credo si fosse reso conto che tra tutti i suoi nipoti io avevo lo stesso dono speciale. La cosa più saggia che mi abbia mai detto è stata: «Mai lavorare contro Madre Natura. Avrai successo solo quando lavorerai insieme a lei». E ancora oggi lo ripeto a me stesso, e ai miei clienti, ogni volta che lavoro con i cani. E a volte, quando mi sento stressato, applico questa massima anche ad altri settori della mia vita. Anche se mio nonno è morto all'età di centocinque anni, lo ringrazio ogni giorno per quella sua perla di saggezza senza tempo.
Vivendo tra cani calmi e remissivi, nessuno di noi bambini ha mai avuto paura che uno di loro potesse farci del male. Eravamo sempre sicuri di noi stessi con loro e perciò anche noi diventammo naturalmente i loro capibranco. Non vidi mai neppure una volta un cane scoprire i denti, ringhiare o comportarsi in modo aggressivo verso mio nonno, e nessuno di noi bambini fu mai ferito o morso. Ciò che ho imparato dalla saggezza di mio nonno mi ha convinto che nella vita in comune un atteggiamento di calma e sottomissione è il migliore che un cane possa avere.
Non voglio dare ai miei nonni tutto il merito per la mia infanzia stupenda. Mio padre era l'uomo più onesto e degno di rispetto che abbia mai conosciuto. Lui mi ha insegnato l'integrità. Mia madre, invece, mi ha insegnato la pazienza e il sacrificio. Lei parlava sempre dell'importanza di avere un sogno e di sognare anche in grande, se volevo. Ma come alcune persone che crescono a contatto con gli animali e che poi decidono di lavorare con loro, io mi sono sempre sentito piuttosto diverso dagli altri bambini. Mi sembrava di essere più in sintonia con gli animali che con le persone. Quel sentimento di isolamento crebbe quando cominciammo a trascorrere meno tempo alla fattoria e più tempo nell'affollata città di Mazatlàn, sulla costa.
Il trasferimento fu motivato dalla preoccupazione di mio padre circa la nostra istruzione. Lui veniva da una famiglia messicana tradizionale e come tale era molto devoto ai suoi genitori, ma si era reso conto che non c'erano delle vere e proprie scuole al ranch. A volte venivano degli insegnanti e tenevano lezioni per i bambini della fattoria, ma spesso poi non ritornavano per molto tempo. Mio padre voleva che prendessimo sul serio l'istruzione, perciò ci trasferimmo a Mazatlàn, la seconda città costiera più grande del Messico e importante meta turistica. Avevo all'incirca sei o sette anni.
La vita in città: cane mangia cane
Ricordo il nostro primo appartamento a Mazatlàn. Credetemi: non sarebbe mai arrivato sulla copertina di qualche rivista d'architettura. Era al secondo piano di un condominio su Calle Morelos, in una zona affollata e popolare. Era molto lungo e stretto e c'erano un salotto, la cucina, un corridoio e due camere da letto, una per i nostri genitori e una per i bambini. C'era un bagno dove dovevamo anche lavare i panni. E basta. Mio padre trovò un lavoro come fattorino e noi bambini ci passavamo l'un l'altro i vestiti e andavamo a scuola ogni giorno.
Per me la cosa peggiore della vita in città fu che non potevamo più avere i cani intorno. Quando portammo per la prima volta dei cani nell'appartamento, li lasciammo vivere nell'ingresso. Ma puzzavano e noi non eravamo abituati a dover ripulire i loro bisogni. (Tentammo anche di allevare delle galline nell'ingresso, ma puzzavano ancora di più!) Non potevamo far uscire i cani di casa da soli, perché avrebbero potuto essere investiti dalle auto che sfrecciavano ancora più veloci di quanto facevano a Culiacan. Eravamo abituati ai cani che giravano liberi alla fattoria e che si prendevano cura da soli di loro stessi: non sapevamo niente su come portarli a spasso o aver cura di loro in un ambiente urbano. A essere sinceri, eravamo anche pigri. E i bambini di città del nostro quartiere non giocavano con i cani. La maggior parte di quelli che incontravamo erano randagi che frugavano nella spazzatura. Notai che quei cani di città non erano tutti pelle e ossa come quelli del ranch: c'era molto più cibo disponibile lì, spazzatura a volontà in cui cercare da mangiare. Ma erano decisamente più spaventati, nervosi e insicuri. E per la prima volta vidi persone che trattavano male i cani. In campagna la gente urlava contro i cani o li cacciava via solo se aggredivano i polli o rubavano il cibo della famiglia. Per la maggior parte, però, quelli erano cani selvaggi o coyote. Quelli che vivevano con noi non avrebbero mai fatto niente del genere. Ma in città vidi gente che tirava sassi ai cani e imprecava loro contro, solo perché i poveri animali passavano accanto alla loro auto o correvano davanti al loro negozio o alla loro bancarella di frutta. Era straziante. Non mi sembrava affatto “naturale”. Quello fu l'unico periodo della mia vita in cui mi allontanai davvero dai cani. Penso che da un certo punto di vista fu allora che mi allontanai anche da me stesso.
Poiché ero ancora molto giovane, la città stava già cominciando a frenare la parte naturalmente “selvaggia” che c'era in me, così come ostacolava la vera natura dei cani. Alla fattoria potevo stare all'aperto per ore e ore, andare in giro, seguire gli uomini, mio padre o mio nonno o gli altri braccianti, e sempre con i cani che ci camminavano dietro. Potevo andare ovunque a piedi. Ora mia madre si preoccupava anche solo a lasciarci andare fino all'angolo e ritorno. Ovviamente aveva paura di rapitori e molestatori di bambini: i classici “uomini neri” della vita in città. Le uniche volte in cui mi sentivo di nuovo libero era nei fine settimana quando tornavamo alla fattoria. Ma quei fine settimana non duravano mai abbastanza.
Ricordo solo una cosa buona della città: fu lì che vidi il mio primo cane di razza pura. Nel nostro quartiere abitava un medico, il dottor Fisher. Usciva a portare a spasso il suo setter irlandese, il primo cane di razza che avessi mai visto in vita mia, e quando vidi il suo mantello rosso e lucido, ne fui affascinato. Era un cane così ben tenuto e così diverso dai bastardini rognosi che ero abituato a vedere! Non riuscivo a smettere di guardarlo e pensare: “Devo avere quel bel cane!” Seguii il dottor Fisher per vedere dove abitava. Poi vi tomai tutti i giorni e lo seguii mentre portava a spasso il setter. Un giorno il cane, una femmina, partorì una cucciolata. Quello era il mio momento. Mi feci coraggio, mi presentai al dottor Fisher e gli chiesi: «Mi darebbe uno di quei cuccioli?» Lui mi guardò come se fossi impazzito. Davanti a lui c'era un estraneo, un bambino, che voleva uno dei suoi preziosi cuccioli di razza per i quali i ricchi avrebbero pagato centinaia di dollari. Eppure credo mi abbia letto negli occhi che dicevo sul serio. Volevo davvero uno di quei cani! Dopo avermi fissato per un po', rispose: «Forse». Forse! Due anni dopo mi diede finalmente un cucciolo di una delle sue cucciolate. La chiamai Saluki e crescendo divenne una cagnolina grossa, bella e del tutto devota. Fu la mia compagna inseparabile per quasi dieci anni e mi insegnò qualcosa che mi è stato molto utile nel mio attuale lavoro con i cani e i loro padroni. Di razza pura o bastardino, cane di fattoria o cane da appartamento, husky siberiano, pastore tedesco o setter irlandese che sia, un cane di razza è prima di tutto solo un cane comune che indossa un abito d'alta moda. Parlerò in seguito del perché credo che troppe persone attribuiscano alla razza i problemi comportamentali dei loro cani. La dolce Saluki mi insegnò che sotto la pelliccia i bellissimi cani di razza pura e i buffi bastardini sono uguali: sono semplicemente cani.
Nonostante la presenza di Saluki, non riuscivo ad amalgamarmi con gli altri ragazzini a scuola. Prima di tutto erano ragazzini nati e cresciuti in città. Dal primo giorno mi fu chiaro che non avevamo niente in comune. Tuttavia, da bravo membro del branco, mi resi conto che se volevo farcela in città, qualcuno avrebbe dovuto modificare il proprio comportamento, e ovviamente quel qualcuno non sarebbero stati gli altri bambini. Loro erano un “branco”, perciò tentai di adattarmi e inserirmi nel gruppo. Devo ammettere che me la cavai piuttosto bene. Feci amicizia con loro e andavo con loro in spiaggia, giocavo a basket e a calcio, ma dentro di me sapevo di fingere. Non era come alla fattoria, quando inseguivo una rana, catturavo le lucciole per metterle in un vaso e poi le liberavo, o semplicemente me ne stavo seduto sotto le stelle, ad ascoltare il canto dei grilli. La natura mi aveva sempre offerto qualcosa di nuovo da imparare, qualcosa su cui riflettere. Gli sport erano solo un modo per consumare energia e cercare di inserirmi.
La verità è che quegli anni alla fattoria erano radicati nella mia anima. L'unico posto dove ero veramente felice era fuori all'aperto, in mezzo alla natura, senza pareti di cemento o strade o edifici a impedirmi di essere libero. Stavo nascondendo la mia anima per essere accettato e tutta l'energia in eccesso e la frustrazione dovevano sfogarsi in qualche modo. Non molto tempo dopo si trasformarono in aggressività, ma la maggior parte della mia rabbia sembrava esplodere in casa. Cominciai a litigare con le mie sorelle e a discutere con mia madre. I miei genitori erano furbi: mi fecero fare un corso di judo. Era il modo perfetto per sfogare la rabbia e incanalarla in qualcosa di sano e costruttivo, qualcosa che mi ha dato insegnamenti preziosi a cui oggi devo in parte il mio successo.
A sei anni entrai per la prima volta in una palestra di judo. A quattordici anni avevo vinto sei campionati di fila. La mia aggressività doveva essere in qualche modo reindirizzata e trovai un mentore perfetto nel mio maestro di judo, Joaquim. Era convinto che possedessi una qualità speciale: il fuoco “dentro”, come lo chiamava lui. Mi prese sotto la sua ala protettrice, mi raccontò storie sul Giappone e di come la gente li era in enorme sintonia con Madre Natura. Mi insegnò le tecniche di meditazione giapponese: la respirazione e la concentrazione e come usare il potere della mente per raggiungere qualunque obiettivo. L'esperienza mi ricordò mio nonno e la sua saggezza naturale. Molte delle tecniche imparate a judo, la risolutezza, l'autocontrollo, come calmare la mente, la concentrazione profonda, sono capacità che uso ancora ogni giorno e che trovo particolarmente importanti per il mio lavoro con i cani pericolosi e aggressivi. Raccomando anche molte di queste tecniche ai clienti che hanno bisogno di un maggiore controllo su se stessi prima di poter educare i loro cani a comportarsi bene. I miei genitori non avrebbero potuto trovare una valvola di sfogo migliore durante quella fase della mia vita. Fu lo judo a salvarmi dalla pazzia in quegli anni, tra un fine settimana e l'altro in cui potevo scorrazzare per la fattoria o andare sulle montagne o camminare di nuovo in mezzo agli animali. Solo quando ero con Madre Natura o praticavo lo judo mi sentivo davvero nel mio elemento.
El Perrero
Quando avevo circa quattordici anni, mio padre iniziò a lavorare come fotografo per il governo. Risparmiò soldi a sufficienza per comprare una casa molto carina in un quartiere molto più signorile della città. Avevamo un cortile ed eravamo a un solo isolato dalla spiaggia. Fu solo allora che cominciai a sentirmi di nuovo a mio agio con me stesso e cominciai a vedere la mia missione nella vita prendere forma. Tutti i miei amici parlavano di quello che avrebbero voluto diventare da grandi. Io non sentivo il desiderio di fare il pompiere o il dottore o l'avvocato o qualcosa del genere. Non sapevo esattamente cosa avrei fatto, ma sapevo che se c'era una professione che coinvolgeva i cani, io ne volevo essere parte. Poi ripensai a quando prendemmo il primo televisore. Da piccolissimo ero rimasto affascinato dalle repliche di Lassie e Rin Tin Tin, sempre in bianco e nero e doppiate in spagnolo. Poiché ero cresciuto con i cani in un ambiente molto naturale, sapevo che ovviamente Lassie non capiva davvero le parole che Timmy gli diceva. Immaginai anche che i cani normali non facessero automaticamente le imprese eroiche che Lassie e Rin Tin Tin compivano ogni settimana. Una volta scoperto che c'erano degli addestratori fuori dall'inquadratura che controllavano il comportamento dei cani, cominciai a idealizzarli. Che impresa meravigliosa, trasformare quei cani comuni in stelle del cinema! Con la mia naturale comprensione dei cani alla fattoria, capii istintivamente che sarei riuscito ad addestrare con facilità gli animali a fare le stesse cose impressionanti che gli addestratori di Lassie e Rin Tin Tin avevano insegnato loro. Questi due telefilm ispirarono il mio primo, grande sogno: andare a Hollywood e diventare il miglior addestratore di cani del mondo. Ciò che sono diventato è tutt'altro... ma ve ne parlerò in seguito.
Mentre mi ripetevo questo mio obiettivo sentivo che era la cosa perfetta per me. Dire a me stesso: « Lavorerò con i cani e sarò il miglior addestratore del mondo » fu come se qualcuno mi avesse dato un bicchiere d'acqua dopo essere quasi morto di sete. Sembrava naturale, facile e stupendo. All'improvviso non stavo più combattendo la mia vera natura. Avevo trovato la mia strada.
Il primo passo verso il raggiungimento del mio obiettivo fu ottenere un lavoro nello studio di un veterinario del posto. Quell'ambulatorio non era certo paragonabile agli eleganti locali sterili e puliti che ci sono qui negli Stati Uniti: era una sorta di incrocio tra lo studio di un veterinario, un canile e un negozio di tolettatura per cani. Avevo solo quindici anni, ma i miei datori di lavoro videro subito che non avevo paura dei cani: ero in grado di afferrare perfino quelli a cui neppure il veterinario voleva avvicinarsi. Cominciai come aiutante, spazzando i pavimenti e ripulendo i bisognini degli animali. Poi divenni tolettatore e ben presto fui promosso tecnico veterinario. Il mio compito era afferrare il cane e tenerlo calmo mentre il medico gli faceva l'iniezione. Poi tosavo il cane prima di un intervento chirurgico, gli facevo il bagno, lo medicavo e in pratica facevo da assistente al veterinario ogni volta che serviva.
Fu all'incirca in quel periodo, durante le superiori, che gli altri ragazzi iniziarono a chiamarmi el perrero, «il ragazzo dei cani». Badate, a Mazatlàn non era esattamente un complimento. Nel Nord America e nella maggior parte dell'Europa occidentale, ovviamente, le persone che hanno un rapporto speciale con gli animali vengono messe su un piedistallo. Pensate a figure memorabili come il dottor Dolittle, l’«uomo che sussurrava ai cavalli», i prestigiatori Siegfried e Roy... e persino Steve Irwin, il «cacciatore di coccodrilli»! Tutti, personaggi di fantasia o reali, sono considerati delle celebrità per il loro stupefacente dono naturale di comunicare con gli animali. In Messico, tuttavia, i cani di città venivano considerati bestie sporche e inferiori e per associazione lo ero anch'io, perché lavoravo con loro. M'importava? No. Avevo una missione da compiere. Ma è importante per me spiegare l'enorme differenza tra come vengono considerati i cani in Messico e negli Stati Uniti. Credo che provenendo da un luogo che giudica negativamente i cani, so come rispettare di più questi animali.
La realtà è che nella maggior parte del mondo i cani non sono amati come nel Nord America e nell'Europa occidentale. In Sud America e in Africa sono trattati come in Messico, ossia come utili aiutanti in campagna, ma un fastidio e fonte di sporcizia in città. In Russia sono apprezzati, ma nelle zone molto povere scorrazzano in branchi e sono pericolosi persino per gli uomini. In Cina e Corea vengono persino mangiati. Questo può sembrarci barbaro, ma bisogna ricordare che in India noi sembriamo barbari perché mangiamo la carne delle loro mucche sacre! Essendo cresciuto in una cultura e avendo poi messo su famiglia in un'altra, credo sia meglio non giudicare troppo gli stili di vita diversi dal nostro, almeno non senza averli prima vissuti di persona e aver fatto uno sforzo per capire come determinate abitudini abbiano avuto origine. Detto questo, quando sono venuto negli Stati Uniti ho avuto una grandissima sorpresa circa il modo in cui venivano considerati i cani!
Attraverso il confine
Avevo all'incirca ventun anni quando il desiderio di vivere il mio sogno alla fine si fece impellente. Lo ricordo con molta chiarezza: era il 23 dicembre. Andai da mia madre e le dissi: «Vado negli Stati Uniti. Oggi». E lei disse: «Ma devi essere pazzo! Fra due giorni è Natale! E abbiamo solo un centinaio di dollari da darti!» Non parlavo una parola d'inglese; sarei dovuto andare da solo e la mia famiglia non conosceva nessuno in California. Alcuni dei miei zii si erano trasferiti a Yuma, in Arizona, ma non era quella la mia destinazione. Il mio obiettivo era Hollywood. E sapevo che l'unico modo per arrivarci sarebbe stato passare da Tjiuana. Mia madre discusse con me, mi pregò. Ma non riuscivo a esprimerlo: il bisogno di andare negli Stati Uniti in quel preciso momento era incontenibile. Sapevo di dover fare subito qualcosa.
È già stato pubblicato da qualche parte e non mi vergogno a dirlo: sono entrato negli Stati Uniti illegalmente. Ora ho il mio permesso di soggiorno, ho pagato una grossa multa per essere entrato illegalmente e ho fatto domanda per diventare cittadino americano a tutti gli effetti. Non c'è altro paese al mondo in cui vorrei stare, e mi sento fortunato di poter vivere e crescere qui i miei figli. Tuttavia per i poveri e la classe operaia messicana, non c'è altro modo di entrare in America che non clandestinamente: al governo messicano interessa solo chi conosci e quanti soldi hai. Bisogna pagare enormi somme ai funzionari per ottenere un visto legale, e la mia famiglia non aveva modo di mettere le mani su somme simili. Perciò, con solo cento dollari in tasca, mi misi in viaggio per Tijuana per capire come attraversare la frontiera.
Non ero mai stato a Tijuana prima. E un posto pericoloso. Ci sono bar e bettole piene di ubriachi e spacciatori di droga e criminali: tutta gente pronta a farti del male e sempre in attesa di sfruttare un poveraccio che voglia attraversare il confine. Vidi cose terribili. Per fortuna avevo un amico che lavorava da Senor Frog's, un bar molto famoso di Tijuana. Mi lasciò dormire nello stanzino sul retro per due settimane mentre cercavo di capire come avrei attraversato il confine.
Ricordo che piovve quasi sempre, ma ogni giorno uscivo e studiavo la situazione al confine. Volevo risparmiare i miei cento dollari, così tentai di attraversare il confine da solo. Tentai tre volte, e fallii.
Dopo circa due settimane mi stavo preparando a riprovarci. Erano quasi le undici di sera: pioveva, faceva freddo e tirava vento. Presso un banchetto che vendeva caffè intorno al quale si stava radunando la varia umanità ancora in giro a quell'ora per tentare di riscaldarsi un po', un uomo pelle e ossa, uno di quelli che noi chiamiamo “coyote”, mi si avvicinò e disse: «Ehi, qualcuno mi ha detto che vuoi attraversare il confine». Io gli dissi che era vero. Lui disse: «Okay. Ti costerà cento dollari». Sentii un brivido lungo la spina dorsale. Era stranissimo che volesse proprio la somma esatta che avevo con me! L'unica cosa che disse fu: «Seguimi! Ti porterò a San Ysidro». Così lo seguii verso est.
Corremmo per la maggior parte della strada, corremmo finché non fummo esausti. Il mio coyote indicò le luci rosse in lontananza che segnalavano la posizione dei Migras (le pattuglie di confine). Disse: «Resteremo qui finché non si muoveranno». Eravamo in una fossa piena d'acqua. Aspettai tutta la notte, con l'acqua fino al petto. Gelavo, tremavo, ma non m'importava. Alla fine il mio coyote disse: «Okay. È ora di andare». Così corremmo verso nord, sopra il fango, attraverso una discarica, dall'altra parte di un'autostrada e lungo una galleria. Dall'altra parte della galleria c'era una stazione di servizio. La mia guida disse: «Ti chiamerò un taxi e ti farò portare a San Diego». Non avevo mai neppure sentito nominare San Diego. Gli unici posti che conoscevo erano San Ysidro e Los Angeles. Il coyote diede al tassista venti verdoni dai cento che gli avevo dato, mi augurò buona fortuna e se ne andò. Per fortuna il tassista parlava spagnolo, perché non conoscevo una parola di inglese. Mi portò a San Diego e mi lasciò lì, sgocciolante, sporco, assetato, affamato, con gli stivali coperti di fango.
Ero l'uomo più felice del mondo. Ero negli Stati Uniti.
San Diego
Per prima cosa, c'erano i guinzagli. Guinzagli dappertutto! Avevo visto guinzagli a catena in città quando stavo in Messico, ma niente di simile ai guinzagli di pelle, di nylon e allungabili che usavano gli americani. Mi guardai intorno e mi chiesi: «Dove sono tutti i cani che girano liberi per le strade?» Mi ci volle diverso tempo per farmi entrare in testa il concetto di «obbligatorietà del guinzaglio». Alla fattoria di mio nonno, la cosa più simile a un guinzaglio che avevamo mai avuto erano delle corde spesse che legavamo intorno al collo di un animale particolarmente difficile finché non avevamo stabilito con lui il nostro status di capibranco. Poi si tornava allo stato naturale: non c'era più bisogno di un guinzaglio. Le corde erano per i muli, poiché la maggior parte dei cani educati del ranch faceva sempre quello che gli chiedevamo di fare. Ma i guinzagli e i bei collari furono solo l'inizio del mio choc culturale. Come nuovo immigrato in questo grande paese, mi aspettavano molti altri fulmini a del sereno.
Avevo solo pochi dollari in tasca quando arrivai negli Stati Uniti e non sapevo l'inglese. Ovviamente il mio sogno era lo stesso in ogni lingua: ero venuto per diventare il miglior addestratore di cani del mondo. Le prime parole che imparai a dire in inglese furono: «Cercate manodopera?»
Dopo più di un mese vissuto sulle strade di San Diego, a battere tutta la città con gli stessi stivali che indossavo quando avevo attraversato il confine, ottenni il mio primo lavoro e, cosa incredibile, proprio nel mio campo! Accadde tutto così in fretta che fu senz'altro un miracolo. Non sapevo dove cercare un lavoro come addestratore: non ero neppure in grado di leggere le Pagine Gialle! Ma un giorno, mentre vagavo per un quartiere, ancora pieno di entusiasmo per essere riuscito ad arrivare in questo paese, vidi il cartello di un salone di bellezza per cani. Bussai alla porta e riuscii a mettere insieme le parole necessarie a chiedere alle due proprietarie se cercavano manodopera. Con mia grande sorpresa, le due signore mi assunsero subito.
Ricordate: non parlavo una parola d'inglese, avevo gli abiti lisi e sporchi e vivevo per strada. Perché mai avrebbero dovuto fidarsi di me? Eppure, non mi diedero solo un lavoro, ma anche il cinquanta percento dei profitti per ogni lavoro che avrei procurato. Il cinquanta percento! Dopo qualche giorno scoprirono che non avevo una casa e mi concessero di abitare lì, nel salone di bellezza!
Ancora oggi considero queste donne i miei angeli custodi americani. Si fidarono di me e si comportarono come se mi avessero sempre conosciuto. Furono messe sulla mia strada per un motivo e sarò loro grato per sempre, anche se non ricordo i loro nomi.
Se qualcuno vi dovesse dire che la gente negli Stati Uniti non è più capace di gesti di gentilezza, non credetegli. Non sarei dove sono oggi se non fosse stato per l'aiuto disinteressato e la fiducia di così tante persone. In questo paese, quelle due belle signore di San Diego sono state le prime, ma non sarebbero state le ultime. Credetemi, non passa giorno che non ricordi quanto sono stato davvero fortunato con la gente che ho incontrato sul mio cammino.
Al salone di bellezza
Perciò eccomi qui, a ventun anni e quasi del tutto digiuno di inglese, a lavorare in un salone di bellezza per cani. Un salone di bellezza per cani! L'idea stessa avrebbe fatto piegare mio nonno in due dalle risate! I cani alla fattoria si pulivano l'uno con l'altro e nuotavano nel ruscello solo se avevano troppo caldo. La loro idea di un bagno era rotolarsi nel fango! L'unica volta in cui mio nonno lavava i cani con la pompa era se avevano le zecche o le pulci o altri parassiti oppure se il pelo diventava troppo arruffato. Che ci crediate o no, alcuni padroni di cani in Messico arrivano addirittura a far sopprimere i loro cani se hanno troppe zecche. Non mostrano alcuna pietà: si sbarazzano del cane e ne prendono un altro che non ha difetti. Persino la tolettatura che facevo dal veterinario a Mazatlàn era semplicemente parte delle cure mediche. Il fatto che i padroni di cani americani spendessero dei gran soldi - e per me erano davvero tanti! - per curare, tosare e agghindare il loro cane fu una rivelazione per me. Fu la prima cosa che mi diede una vaga idea dell'atteggiamento degli americani verso i loro animali domestici. Quand'ero in Messico, avevo sentito dire che gli statunitensi trattavano i loro cani come esseri umani, ma ora lo stavo vedendo con i miei occhi e in principio mi lasciò esterrefatto. A quanto pareva, niente era mai troppo per i cani d'America.
Per quanto estraneo fosse per me il concetto di « salone di bellezza», quando cominciai a lavorare lì dentro mi piacque tantissimo. Le signore non avrebbero potuto essere più gentili con me e ben presto mi feci la fama di essere l'unico in grado di calmare i cani più difficili, le razze più forti o quelli con cui tutti gli altri si erano arresi. I clienti abituali cominciarono a chiedere di me quando videro come interagivo con i loro animali, ma ancora non capivo come mai i loro cani si comportavano meglio con me che con gli altri tolettatori o addirittura con i loro padroni. Credo che avessi cominciato a capire la differenza, ma non ero ancora in grado di spiegarla.
Il salone di bellezza di San Diego aveva molti più mezzi di quelli a cui ero abituato in Messico. C'erano macchinette per tosare, shampoo aromatici e speciali asciugacapelli delicati progettati esplicitamente per i cani. Stupefacente! Poiché ero stato istruito dal veterinario di Maza-tlàn, io non usavo mai la macchinetta, ma ero estremamente abile con le forbici. Le proprietarie del salone di bellezza furono entusiaste quando videro quanto ero veloce e accurato con un paio di forbici in mano. Perciò mi diedero tutti i cocker spaniel, i barboncini, i terrier e i cani di difficile tolettatura, per i quali la tariffa era maggiore. Il negozio faceva pagare 120 dollari per un barboncino di taglia media, il che significava 60 dollari per me! Questa era proprio una manna dal cielo. Spendevo solo pochi dollari al giorno, in pratica un paio di hot dog da 99 centesimi l'uno dall'emporio all'angolo per colazione e cena. Tutto il resto lo mettevo via. Secondo i miei piani, entro la fine dell'anno avrei avuto abbastanza denaro per trasferirmi a Hollywood, un passo più vicino al mio sogno.
Problemi di comportamento
Al mio arrivo in America incontrare cani con guinzagli e collari eleganti e acconciature costose mi aveva sbalordito, ma da un certo punto di vista i fasti hollywoodiani con cui ero cresciuto tramite i film e la TV mi avevano almeno in parte preparato a ciò che avrei trovato. Fu come andare per la prima volta al circo dopo averne sentito parlare per tutta la vita. C'era una cosa, però, nella nuova situazione che stavo affrontando che mi scioccò veramente. Erano i bizzarri problemi di comportamento che molti di questi cani sembravano avere. Anche se ero cresciuto con i cani, gli esemplari problematici mi erano del tutto sconosciuti. Durante il periodo in cui lavorai come tolettatore, vidi i cani più belli che potessi mai immaginare, esemplari sbalorditivi delle loro razze, con gli occhi lucidi, il pelo brillante, corpi sani e ben nutriti. Eppure solo guardandoli capivo che le loro menti non erano affatto sane. Crescendo con gli animali si percepisce istintivamente se il loro livello di energia è normale. Quel tipo di stato mentale sano ed equilibrato è riconoscibile in qualsiasi creatura, che sia un cavallo, una gallina, un cammello o persino un bambino. Eppure si vedeva subito che questi cani americani avevano quella che a me sembrava un'energia molto strana, molto innaturale. Neppure dal veterinario di Mazatlàn avevo mai incontrato cani così nevrotici, eccitabili, spaventati e tesi. E quanto si lamentavano i padroni! Non avevo bisogno di conoscere bene l'inglese per capire che questi animali erano aggressivi, ossessivi e facevano impazzire i loro padroni. Per il modo in cui alcuni di quei padroni si comportavano sembrava che fossero i cani a gestire la loro vita. Ma cosa stava succedendo qui?
Alla fattoria di mio nonno in Messico era inammissibile che un cane si comportasse male e la facesse franca, né che tentasse di imporre il proprio dominio su una persona. E non era per paura di una punizione fisica di un qualche tipo. Era perché gli uomini sapevano di essere uomini e i cani di essere cani. Era chiaro chi comandava e chi doveva obbedire. Quella semplice equazione ha dominato il rapporto cane-uomo per migliaia, o forse decine di migliaia di anni, sin da quando il primo antenato del cane è capitato in un accampamento di nostri antenati e si è reso conto che lì poteva ottenere da mangiare più facilmente che se fosse rimasto in giro a cacciare tutto il giorno. I confini tra gli esseri umani e i cani erano semplici, e ovvi. I cani che conoscevo in Messico avevano questo naturale equilibrio. Non avevano problemi caratteriali come aggressività o manie. Erano spesso pelle e ossa e sporchi e a volte non erano affatto belli da vedere, ma sembravano vivere la loro vita nell'armonia che Dio e Madre Natura avevano voluto per loro. Interagivano con naturalezza sia con i propri simili sia con gli esseri umani. Allora cosa c'era che non andava in queste meravigliose creature da poster che erano i cani americani?
Il fatto che così tanti cani statunitensi avessero problemi mi colpì ancora di più quando mi trasferii a Los Angeles e cominciai a lavorare come aiutante in un centro di addestramento. Volevo imparare a fare l'addestratore e avevo sentito che quello era il posto migliore. Sapevo che i ricchi pagavano un sacco di soldi per lasciare i loro animali in un centro così famoso. Di solito li lasciavano lì per un paio di settimane in modo che imparassero a eseguire ordini come “seduto”, “fermo”, “vieni” e “al piede”.
Quando cominciai a lavorare lì, fui sbalordito dalle condizioni in cui arrivavano questi cani. Fisicamente, è ovvio, erano tutti favolosi. Erano ben nutriti, ottimamente tenuti e col mantello lucido che dimostrava la loro perfetta salute. Ma emotivamente molti erano un completo disastro. Alcuni erano paurosi e spaventati; altri erano nervosi e aggressivi. Ironicamente, i proprietari di solito portavano i cani per essere addestrati nella speranza che si sbarazzassero di tali comportamenti nevrotici. Credevano che una volta che avessero imparato a rispondere a dei comandi, le loro paure, l'ansia o altri comportamenti problematici sarebbero miracolosamente scomparsi. Questo è un malinteso fin troppo comune, ma anche pericoloso. È assolutamente vero che se un cane ha un carattere dolce e spensierato di natura, l'addestramento tradizionale può aiutarlo a calmarsi e a semplificare la vita a tutti. Ma a un cane nervoso, teso, eccitato, pauroso, aggressivo, dominante, che si lascia prendere dal panico o con qualche altro tipo di squilibrio l'addestramento tradizionale può a volte fare più male che bene. Questo fatto mi fu chiaro sin dal primo giorno di lavoro al centro di addestramento.
Il mio compito al centro era di chiudere i cani in canili separati fino all'inizio della loro «lezione» quotidiana e poi di portarli agli addestratori. L'isolamento patito da questi animali nei canili tra una lezione e l'altra spesso aumentava l'ansia che già provavano. Purtroppo, dal momento che il centro non veniva pagato a meno che il cane non imparasse a eseguire gli ordini quando il padrone fosse tornato a riprenderselo, instillare la paura dell'addestratore nel cane era spesso l'ultima risorsa. Alcuni se ne andavano in condizioni psicologiche peggiori di quando erano arrivati. Vidi cani che obbedivano ai comandi dell'addestratore mentre erano accucciati, con le orecchie basse e la coda tra le gambe, tutti segnali del linguaggio del corpo che urlavano ai quattro venti: « Ti obbedisco solo perché sono terrorizzato! » Credo che gli addestratori di questo centro fossero degli ottimi professionisti e in realtà non facevano proprio niente di crudele o disumano. Ma a mio parere c'era un'incomprensione profonda delle necessità basilari del cane, di quello di cui la mente di un cane ha davvero bisogno per diventare equilibrata. Questo perché l'addestramento tradizionale è basato sulla psicologia umana. Non parte dal presupposto di assecondare la natura del cane.
Restai in questo centro perché sentivo il bisogno di imparare a muovermi in questa attività. Dopotutto era per questo che avevo fatto così tanta strada. Ma non era il sogno che avevo immaginato. Dal momento in cui ero arrivato, avevo percepito che questo tipo di addestramento poteva essere utile per gli esseri umani, ma a volte era nocivo per gli animali. Ripensandoci, fu allora che il mio sogno originario iniziò a cambiare forma. Ancora una volta la maggior parte dei cambiamenti della mia vita avvennero per caso... Anche se mi piace credere che non sia stato davvero causale, ma che fu il destino.
Nasce il «metodo Cesar»
Mentre ero in questo centro di addestramento, ancora una volta mi feci la fama di essere l'unico a saper gestire le razze di cani più aggressive e più forti, come i pitbull, i pastori tedeschi e i rottweiler. Amo moltissimo queste razze: la loro forza bruta mi ispira. Anche un altro aiutante mio collega era molto bravo con le razze forti, ma non voleva lavorare con i cani ansiosi o nervosi. Perciò i casi davvero gravi finivano sempre per essere assegnati a me. Invece di gridare contro un cane aggressivo o insicuro come facevano gli altri, io mi avvicinavo a lui in silenzio. Niente parole, niente tocco, nessun contatto visivo. Anzi, quando vedevo un cane del genere, aprivo il cancello e gli voltavo le spalle come se stessi per camminare nella direzione opposta. Alla fine, poiché i cani sono curiosi di natura, era lui a venire da me. Solo dopo che mi si era avvicinato gli mettevo il guinzaglio. A quel punto era facile, perché avevo già stabilito una supremazia “calmo-assertiva” su di lui proprio come farebbe un altro cane in natura. Inconsciamente stavo cominciando ad applicare la psicologia canina che avevo imparato negli anni in cui mi ero divertito a osservare i cani alla fattoria di mio nonno. Interagivo con loro nel modo in cui loro interagivano l'uno con l'altro. Così nacquero i metodi di rieducazione che uso ancora oggi, anche se a quell'epoca non sarei riuscito a spiegare a parole quello che stavo facendo, né in inglese né in spagnolo. Tutto ciò che facevo mi veniva istintivo.
La svolta fu quando mi accorsi del “potere del branco” nella rieducazione di cani squilibrati. Un giorno uscii in cortile con due rottweiler, un pastore tedesco e un pitbull tutti insieme. Ero l'unico lì dentro ad aver tentato una cosa del genere. La maggior parte degli altri impiegati pensavano che fossi pazzo. E anzi, a un certo punto mi fu espressamente ordinato di non lavorare con i cani in branco: rendeva nervosa la direzione del centro. Ma dal momento in cui scoprii questo metodo, compresi l'efficacia del branco come strumento per aiutare un cane problematico. Ciò che avevo scoperto è che quando un cane instabile viene introdotto in un gruppo che ha già formato un legame sano, il branco influenza il nuovo arrivato e lo aiuta a raggiungere uno stato mentale equilibrato. Il mio compito era assicurarmi che l'interazione tra il nuovo arrivato e i membri del branco non diventasse troppo intensa. Se avessi controllato e bloccato qualsiasi comportamento aggressivo, di esclusione o difensivo da entrambe le parti, il nuovo arrivato alla fine avrebbe modificato il suo comportamento per inserirsi nel branco. Con gli esseri umani come con i cani e anzi, in tutte le specie sociali, è nel nostro miglior interesse dal punto di vista genetico inserirci nel gruppo, andare d'accordo con i propri simili. Io stavo semplicemente sfruttando un impulso genetico naturale. Lavorando in branco con i cani, osservai che erano in grado di accelerare i processi di guarigione reciproca molto più in fretta di quanto potesse fare un addestratore.
Ben presto al centro cominciarono a considerarmi un lavoratore affidabile e instancabile. Ma più sviluppavo le mie idee sulla psicologia canina, più loro si sentivano a disagio. Immagino che non fossi molto bravo a nascondere il mio malcontento. Un cliente, un uomo d'affari di successo entusiasta di come avevo gestito il suo golden retriever, mi osservava da un po' ed era rimasto impressionato sia dalle mie capacità che dalla mia etica professionale. Un giorno mi si avvicinò e disse: « Non sembri molto soddisfatto qui. Ti andrebbe di venire a lavorare per me? » Io gli chiesi cosa avrei dovuto fare, pensando ovviamente che avrebbe avuto a che fare con i cani. Fui un po' deluso quando mi rispose: « Laverai le mie limousine. Ne ho un Parco intero ».
Uau. Un'offerta niente male, ma ero venuto in America Per fare l'addestratore di cani. Ciononostante era un uomo interessante, il tipo di uomo d'affari forte e sicuro di sé che sarei voluto diventare anch'io.
Poi indorò la pillola dicendo che come suo impiegato avrei avuto un'auto tutta mia. Non potevo permettermi un'auto a quell'epoca e a Los Angeles era praticamente come non potersi permettere un paio di gambe. Mi ci vollero un paio di settimane per decidere, ma alla fine accettai. Ancora una volta un angelo custode che neppure mi conosceva aveva contribuito ad aprire la strada alla fase successiva del mio viaggio.
Passaparola
Il mio nuovo capo era un datore di lavoro duro ma imparziale. Mi mostrò i rudimenti del mestiere e come lavare le sue limousine... ed era estremamente pignolo sul fatto che dovessero essere immacolate. Sarebbe stato un lavoro sfiancante, ma a me non importava, perché ero anch'io, e lo sono ancora, un perfezionista. Se dovevo fare il lava-macchine, sarei stato il miglior lavamacchine mai esistito. Riconosco a quest'uomo il merito di avermi insegnato moltissimo su come gestire un'attività solida e redditizia. Il giorno in cui presi l'auto che mi prestava è un giorno che non dimenticherò mai. Sì, era solo un'auto, un Chevy Astrovan dell'88, e no, non avevo la patente, ma per me simboleggiava la prima volta che sentivo di avercela davvero fatta in America. Quello fu anche il giorno in cui avviai la mia attività di addestratore per cani, la Pacific Point Canine Academy. Tutto ciò che avevo era il logo della ditta, una giacca e dei biglietti da visita stampati in fretta e furia, ma, cosa più importante, avevo un'idea chiara di ciò che volevo diventare. Il mio sogno non era più di diventare il miglior addestratore di cani da film del mondo. Ora volevo aiutare altri cani come le centinaia di cani con problemi che avevo conosciuto da quando ero venuto negli Stati Uniti. Sentivo che il modo unico in cui ero cresciuto e la mia conoscenza innata della psicologia canina avrebbero dato sia ai cani sia ai loro padroni la possibilità di avere un rapporto migliore e una nuova speranza per il futuro. Mi turbava profondamente il fatto che così tanti cani “cattivi” che avevano “fallito” nei normali centri d'addestramento fossero condannati alla soppressione se i loro padroni decidevano di non poterli più gestire. Sapevo nel mio cuore che questi cani meritavano di vivere quanto lo meritavo io. Il mio ottimismo sul futuro mi veniva dalla convinzione radicata nel profondo che c'erano molti cani in America che avevano bisogno del mio aiuto. E grazie alla generosità del mio nuovo datore di lavoro, il mio sogno iniziò a prendere forma più in fretta di quanto avessi mai immaginato.
Il passaparola è una cosa fenomenale. Anche in una città grande e variegata come Los Angeles, il pettegolezzo più piccante del momento o l'idea più nuova possono diffondersi in un lampo a macchia d'olio. Fortunatamente per me, il mio nuovo capo conosceva un mucchio di gente e non si fece mai nessuna remora a lodare le mie capacità. Chiamava i suoi amici e diceva: «Ho questo straordinario tizio messicano, che è formidabile con i cani. Portali qui». I suoi amici cominciarono a portarmi i loro cani con problemi. Tutti furono felici dei risultati e lo dissero ai loro amici. Alla fine la mia Pacific Point Canine Academy aveva sette dobermann e due rottweiler con i quali correvo su e giù per le strade di Inglewood, una cittadina nella contea di Los Angeles. (Dev'essere stato un vero spettacolo!)
Dopodiché la mia attività ancora in fasce cominciò letteralmente a esplodere.
Perché impressionavo così tanto la gente? In che modo, dopo soli pochi anni negli Stati Uniti, ero riuscito ad avere un'attività fiorente senza aver messo neppure un annuncio pubblicitario? Dopotutto ci sono centinaia di addestratori di cani e di educatori patentati nel Sud della California e sono sicuro che molti di loro sono eccezionali in quello che fanno. Forse anche voi potreste decidere alla fine che uno di questi addestratori potrebbe essere più adatto di me per farvi ottenere il rapporto che desiderate col vostro cane. Io posso parlare solo per i miei clienti, e tra loro ero conosciuto come «il messicano che fa magie con i cani». Le basi della mia tecnica consistevano nell'energia, il linguaggio del corpo e, quando era necessario, un tocco veloce con la mano a coppa, che non è mai doloroso per il cane, ma si avvicina al morso “morbido” punitivo di un cane dominante o di una madre. Non urlavo mai, non picchiavo mai e non ho mai “punito” un animale per rabbia. Semplicemente li correggevo, allo stesso modo in cui un capobranco corregge e educa un gregario. Correggi e vai avanti. Non c'era niente di nuovo \ nelle tecniche che stavo sviluppando: venivano direttamente dall'osservazione della natura. Non sto dicendo che non ci fossero altri addestratori in America che usavano gli stessi metodi. Dico solo che queste mie tecniche sembravano soddisfare un bisogno disperato tra i miei clienti di Los Angeles, perciò continuavano a venire sempre più numerosi.
Un giorno, nel 1994, ero a casa di un cliente a lavorare col suo cane disturbato, un rottweiler, Kanji. Kanji stava facendo enormi progressi e il suo padrone, che aveva molti contatti nel mondo dello spettacolo, mi stava facendo una grandissima pubblicità in tutta la città. Guardai fuori e vidi una Nissan 300C marrone fermarsi davanti al vialetto: ne scese una donna veramente favolosa, che si diresse con passo sicuro verso di me. La guardai, tentando di ricordare dove l'avessi vista prima, ma per quanto mi sforzassi non ci riuscivo. Accanto a lei camminava con passo non altrettanto sicuro un timido rottweiler (Saki, che mi dissero poi era uno dei figli di Kanji.)
La donna mi chiese se potevo addestrare il suo cane e tre settimane dopo andai a casa sua. E chi rispose quando suonai al campanello? Nientemeno che l'attore Will Smith. Ero senza parole. E ricordai dove avevo visto quella donna prima: nel film Detective Shame: indagine ad alto rischio. La mia cliente era Jada Pinkett Smith!
Okay, ricapitoliamo: sono negli Stati Uniti solo da tre o quattro anni, ho già un'attività fiorente e oggi lavoro con il cane di Jada Pinkett e Will Smith?
Jada e Will mi spiegarono che Jay Leno aveva appena regalato loro due rottweiler e che quei cani avevano bisogno di un po' di lavoro, proprio come Saki. In realtà stavano minimizzando: quegli animali erano un vero disastro. Fortunatamente Jada era una di quelle persone rare e speciali che apprendono immediatamente le mie tecniche e la mia filosofia. È la padrona ideale: vuole solo ciò che è meglio per l'animale ed è disposta a fare tutto il necessario perché siano felici e soddisfatti.
Quel giorno fu l'inizio di un'amicizia che dura da undici anni e che continua ancora oggi. Jada e Will mi raccomandarono ai loro amici dell'elite di Hollywood, inclusi Ridley Scott, Michael Bay, Barry Josephson e Vin Diesel. Ma quello non fu affatto il regalo più prezioso che mi fece Jada. Lei mi prese sotto la sua ala. Assunse per me un insegnante per un anno intero, affinché facessi un corso intensivo d'inglese. E, cosa più importante di tutte, credette in me. Diventare famoso per quello che faccio è sempre stato il mio sogno, ma ogni grande dono ha un prezzo. La mia vita ora era diventata molto più complicata, con nuove difficoltà, come di chi fidarmi e a chi stare attento, quali contratti erano buoni e quali dovevo gettare nel tritarifiuti, cose che non si imparano in una fattoria di Ixpalino. Quando ho un problema che non so risolvere, so che posso contare su Jada. Lei non è solamente una delle persone più generose che abbia mai incontrato, è anche una delle più intelligenti. Io le chiedo: «Jada, che succede? Che faccio ora?» E lei mi calma e mi spiega: «Allora, Cesar, si tratta di questo e di questo...» Con lei sento sempre di avere qualcuno che sa molto più di me su come trattare con i pezzi grossi e che è sempre disposta a dedicare un momento della sua vita incredibilmente fitta di impegni a darmi una mano. Jada è stata più di una cliente. È stata il mio mentore, una sorella e un altro dei miei preziosi angeli custodi.
Anche grazie a Jada feci grandi passi avanti col mio inglese. E divenni sempre più entusiasta della mia nuova missione, che ormai avevo ben chiara: come dico sempre, «rieducare i cani e addestrare le persone». Cominciai a studiare da autodidatta, leggendo tutto ciò che trovavo sulla psicologia canina e sul comportamento animale. I due libri che mi hanno maggiormente influenzato e rassicurato su ciò che già sapevo per istinto sono stati La mente del cane di Bruce Fogle e Dog Psychology: The Basics of Dog Training di Leon F. Whitney, medico veterinario. Ho appreso molte perle di saggezza da questi e da altri libri (alcuni dei quali sono elencati nelle «Letture consigliate» alla fine di questo libro) e mi sono anche assicurato di integrare quelle informazioni con quanto avevo appreso dall'esperienza. Secondo la mia opinione e quanto avevo osservato, Madre Natura è la più grande maestra. Ma io stavo imparando a pensare in modo critico come non avevo mai fatto prima e, cosa più importante stavo trovando il modo per spiegare con le parole ciò che capivo intuitivamente. E infine ero finalmente in grado di esprimere quelle nuove idee chiaramente, e in inglese.
A quel punto avevo già conosciuto la mia futura moglie, Ilusion, che aveva solo sedici anni quando cominciammo a uscire insieme. Quando un mio amico mi disse che negli Stati Uniti c'era una legge che vietava a un uomo più grande di uscire con una ragazza così giovane, diedi di matto. Avevo il terrore di essere rimpatriato e la scaricai all'istante. Lei ne fu devastata. Convinta che fossi l'«uomo giusto», venne a bussare alla mia porta il giorno in cui compì diciotto anni. Durante i primi anni di matrimonio e dopo la nascita di nostro figlio Andre il nostro rapporto fu piuttosto difficile. Io ero ancora legato ai miei modi tradizionalisti e maschilisti messicani. Credevo che le uniche cose importanti fossimo io, il mio sogno e la mia carriera, e che lei dovesse pazientare e stare zitta. Lei non fece nessuna delle due cose. Mi lasciò. Quando se ne andò di casa e io mi resi conto che faceva sul serio, dovetti guardarmi allo specchio per la prima volta nella mia vita. Non volevo perderla. Non volevo vederla risposata... e magari guardare un altro uomo crescere mio figlio. Ilusion sarebbe tornata da me solo a due condizioni, che facessimo terapia di coppia e che io mi impegnassi con sincerità a essere un vero partner a tempo pieno nel nostro rapporto. Con riluttanza acconsentii. Non credevo di avere molto da imparare. Mi sbagliavo. Ilusion mi rieducò proprio come io rieduco i cani squilibrati. Mi fece capire che dono meraviglioso era avere un partner forte e una famiglia, e che ogni membro della famiglia deve avere il proprio peso. Oggi considero Ilusion, Andre e Calvin i miei più grandi doni sulla Terra.
Mentre mi sforzavo di diventare un marito migliore, avevo più lavoro di quanto riuscissi a gestirne, grazie alle persone come il mio ex capo e ai clienti come Jada. Le associazioni cinofile iniziarono a chiamarmi perché li aiutassi a salvare i loro casi disperati dalla soppressione e all'improvviso mi ritrovai con un branco di cani rieducati, ma orfani. Mi serviva più spazio, così affittai una proprietà dismessa in un quartiere di magazzini a South Los Angeles. Io e Ilusion la rimettemmo a nuovo e la trasformammo nel Dog Psychology Center, una sorta di casa-famiglia permanente o un centro per la mia «terapia di gruppo» per cani. E nel frattempo continuai a lavorare per trovare modi per spiegare i miei metodi e le mie filosofie al padrone di cane medio.
Americani e cani: esseri umani che amano troppo
Quando ero un ragazzo in Messico e guardavo Lassie e Rin Tiri Tin in televisione, mi divertivo sempre con le avventure di quelle superstar canine, ma pensavo che tutti quelli che guardavano si rendessero conto che quei telefilm erano solo spettacoli di fantasia alla maniera hollywoodiana! Quando Lassie abbaiava quattro volte e Timmy diceva: «Che c'è, Lassie? Un incendio? La casa... no, è il fienile che è in fiamme? Grazie, piccola, andiamo! » io sapevo, e presumevo che tutti gli altri sapessero, che i cani veri non si comportano così. Quando venni negli Stati Uniti, fui scioccato di scoprire che molti padroni di cani credevano davvero che Lassie capisse quello che Timmy stava dicendo! E scoprii che qui la percezione generale dei cani era che fossero tutti come Lassie, in pratica degli esseri umani vestiti da cani. Mi ci volle un po' per mandare giù questa cosa, ma dopo aver trascorso del tempo in questo paese, capii che la maggior parte dei proprietari di animali domestici in qualche misura credeva che i propri animali, che fossero cani, gatti, uccelli o pesci rossi, fossero in realtà esseri umani in tutto tranne che nell'aspetto. E li trattavano di conseguenza.
Dopo essere stato negli Stati Uniti per circa cinque anni, finalmente capii: era quello il problema! I cani americani avevano così tanti problemi perché i loro padroni pensavano che fossero umani. Non veniva loro consentito di essere animali! Nella terra della libertà, dove si supponeva che tutti potessero esprimere il proprio illimitato potenziale, questi cani stavano facendo tutto tranne quello! Sì, certo, venivano coccolati: avevano il cibo migliore, le case migliori, la tolettatura migliore e tanto, tanto amore. Ma non era tutto ciò che volevano. Loro volevano semplicemente essere cani!
Ripensai a ciò che avevo imparato in Messico, dove trascorrevo ore e ore a guardare i migliori addestratori di cani sulla Terra: i cani stessi. Ripensando al mio rapporto istintivo con loro, cominciai a capire come poter aiutare i cani degli Stati Uniti a diventare creature più sane e più felici, e ad aiutare anche i loro padroni. Il mio metodo non è complicato. Non l'ho creato io: è stata Madre Natura. La mia formula per metterlo in pratica è semplice: per avere un cane equilibrato e sano, un essere umano deve condividere con lui esercizio, disciplina e affetto, in quest'ordine. L'ordine è cruciale e il perché lo spiegherò in seguito.
Purtroppo la maggior parte dei padroni di cani americani che ho conosciuto non capisce l'ordine giusto. Quasi tutti mettono l'affetto al primo posto. E anzi, molti padroni danno ai loro cani nient'altro che affetto, affetto, affetto! Certo, so che hanno buone intenzioni. Ma le loro buone intenzioni possono fare del male ai loro animali. Io chiamo questi padroni «gli esseri umani che amano troppo».
Forse leggerete queste righe e penserete: “Io do al mio cane quintali di affetto perché è il mio tesorino! E non ho problemi di comportamento con lui”. E in effetti è possibile che abbiate un cane con un'indole passiva e spensierata per natura e che non abbiate mai problemi con lui. Potreste ricoprirlo d'amore e non ottenere altro che amore incondizionato. Potreste considerarvi il padrone di cani più fortunato del mondo, quello con l'animale più perfetto. Grazie al vostro cane, voi siete felici e vi sentite realizzati. E io sono felice per voi. Ma, vi prego, aprite la mente alla possibilità che al vostro cane possano mancare alcune delle cose di cui ha bisogno nella sua vita per essere felice e realizzato come cane. Spero almeno che questo libro vi renda più consapevoli dei suoi bisogni specifici e vi spinga a trovare modi creativi per soddisfarli.
Quello che sto per condividere con voi è la verità delle mie esperienze di vita. Queste sono le cose che ho imparato di persona e che ho sperimentato e osservato lavorando con migliaia di cani per oltre vent'anni. Credo davvero dal più profondo del cuore che la mia missione sia aiutare i cani e vivere imparando tutto ciò che loro hanno da insegnarmi. Io considero la mia carriera tra i cani come un'occasione costante di imparare. Io sono lo studente e loro i miei insegnanti. Lasciate che insegnino anche a voi ciò che hanno insegnato a me. Loro mi hanno aiutato a capire che ciò di cui hanno davvero bisogno non sempre è quello che noi vogliamo dare loro.
"Vai con fiducia nella direzione dei tuoi sogni. Vivi la vita che hai immaginato."
( Henry David Thoreau)
Seguite anche un sito che traduce gli articoli di Cesar Millan per tutti noi italiani (era ora, e fatto veramente bene): http://cesarmillanitalia.blogspot.it/
Nessun commento:
Posta un commento
Lascia un commento...